INTERVISTA ALLO SCRITTORE GIANNI MARTINO 

A CURA DI LORENZO SPURIO 

Gianni De Martino è nato ad Angri (SA) nel 1947. Nel 1967 è stato caporedattore della rivista «Mondo Beat» e poi collaboratore della rivista «Pianeta fresco», diretta da Allen Ginsberg e Fernanda Pivano. Dopo aver viaggiato tra il Marocco e l’India, ora vive e lavora a Milano come giornalista e consulente editoriale.

Direttore di «Mandala. Quaderni d’oriente e d’occidente» e collaboratore delle riviste «Alfabeta», «L’erba voglio», «Il piccolo Hans», «Panta», «Altrove», «Riza», «Rolling Stones», «Re nudo», «Il Manifesto», «Rinascita», «Il Mattino» ed altri quotidiani e riviste, ha curato, tra l’altro, M’hashish: Cento cammelli nel cortile di Paul Bowles & Mohammed M’Rabet (Arcana, 1975), Saggio sulla transe di Georges Lapassade (Feltrinelli, 1980; Apogeo, 1997, Jouvence, 2020); La cultura ell’harem di Malek Chebel (Bollati Boringhieri, 2000); L’interprete delle passioni di Ibn ‘Arabi (con Roberto Rossi Testi, Apogeo, 2008).

Gianni con l'editore Marco Philopat_2019

(Gianni De Martino con l’editore Marco Philopat nel 2019)

È autore del romanzo Hotel Oasis (Mondadori 1988; Zoe 2001; Biliki 2008, con Prefazione di Alberto Moravia) e di numerosi libri, tra i quali: Marocco e Nordafrica (Arcana,1975), Kleine Schriften zu zwischenmännlicher Sexualität und Erotik in der muslimischen Gesellschaft (Berlin, Gustav-Müller-Str. 10, A. Schmitt, 1985), Sabba negro (con Georges Lapassade, Moizzi, 1978); I Capelloni. Mondo Beat 1966-1967. Storia, immagini, documenti (con Marco Grispigni, Castelvecchi, 1997), Arabi e noi (con Vincenzo Patanè, DeriveApprodi, 2002); Viaggi e profumi (con Luigi Cristiano, Apogeo, 2007); Capelloni & Ninfette (Costa & Nolan, 2008), Odori (Apogeo, 1998; Feltrinelli, 2014), e Voglio vedere Dio in faccia. FramMenti della prima controcultura (Agenzia X, 2019).

I suoi libri, dei quali alcuni tradotti in francese, tedesco, inglese e turco, sono stati elogiati da personalità della cultura e dell’arte come Fernanda Pivano, Alberto Moravia, Giuseppe Pontiggia, Franco Brevini, Pier Vittorio Tondelli, Antonio Spadaro SJ, Mario Spinella, Elvio Fachinelli, Giuliano Gramigna, Carmen Covito, Lucia Guidorizzi, Gabriella Ziani, Massimo Raffaeli, Isabella Bossi Fedrigotti, Generoso Picone, Fulvio Panzeri, Vanni Santoni, Enrico Bianda, Corrado Augias e altri.

Definito da Fernanda Pivano “nato apposta per scrivere”, da Giuseppe Pontiggia “tra i pochi narratori veri” e da Corrado Augias “giocoliere della lingua, della parola”, Gianni De Martino è un autore con una lunga pratica di scrittura e di opere pubblicate (per, tra l’altro, Mondadori, Feltrinelli, Einaudi, Bompiani e ultimamente, nel 2019, per Mimesis-Jouvence e Agenzia X). Ha in preparazione un nuovo romanzo, Addio a Mogador. L’ultimo beat stagionato vuota il sacco.

Gianni in un ritratto di Graziano Origa

(Gianni De Martino in un ritratto di Graziano Origa)

 

 

INTERVISTA A GIANNI DE MARTINO

 

L.S.: Che cosa rappresenta per lei la scrittura? Quanto è rilevante nella sua vita?

G.D.M.: L’atto dello scrivere, raramente investigato dalla critica letteraria concentrata sul testo e la biografia dello scrittore, anche con strumenti psicoanalitici, è l’atto più solitario che esista. Ed è anche causa e caso di un certo sdoppiamento di sé. Molto rilevante nella mia vita, la scrittura m’interessa perché (ops! Stavo per scrivere “nella misura in cui”) allena lo spirito a delle trasformazioni. Forse per questo la mia produzione ha un impianto teorico alquanto sofisticato, sebbene non di difficile lettura, ma forse dovrei imparare a destreggiarmi di più a livelli arrivistici. Era quello che mi suggerivano Fernanda Pivano e Giuseppe Pontiggia nel corso di conversazioni e scambi epistolari. Rispondevo che per me la Letteratura non poteva essere un mezzo di promozione sociale. E infatti non scrivo per il Potere, neanche per il Ribelle, forse scrivo semplicemente per essere punito, specialmente dai parenti che mi rimproverano di non avere “ambizioni” e non ancora “un posto fisso”, a parte qualche collaborazione occasionale con quotidiani e riviste.

 

L.S.: Quando e perché ha cominciato a scrivere? Ricorda le due prime opere? Può parlarcene?

G.D.M.: Ho incominciato a scrivere fin dalla terza elementare, avevo un’insegnante, suor Gemma, che in un tema corresse la parola “zappatore”, da me impiegata per descrivere il lavoro del nonno, con la parola “contadino”. Fu allora che capii che scrivere significa fare attenzione alle parole, non solo alle emozioni e ai sentimenti. Le prime opere furono gli svolgimenti dei “temi”, per i quali venivo premiato con un “bravo!” o anche “bravissimo!”, e dei libri di favole della collana “Scala d’oro” da leggere a casa. Le mie prime opere furono delle poesie in latino, alla maniera petrarchesca, dedicate “a Lina”, una bambina bionda che incrociavo spesso dalle suore. Poi, a sedici anni, uscito dall’Oratorio mi iscrissi alla Federazione Giovanile Comunista, per far dispetto a mio padre, che collaborava con il giornale e il movimento dell’Uomo Qualunque (UQ) del commediografo conservatore Guglielmo Giannini, e incominciai a scrivere per il giornale cittadino dei comunisti, «La voce di Stabia». Alle riunioni veniva da Napoli Giorgio Napolitano, che chiamavamo “Giorgio o’sicche” (Giorgio il magro), per distinguerlo da Giorgio Amendola (“Giorgio o’ chiatte”). Mi mandarono anche alla scuola di partito alle Frattocchie, allora, nel 1965-66, diretta da Alessandro Natta, a studiare il DIAMAT (materialismo dialettico). A Roma, nello stesso periodo, frequentavo la casa di Lorenza Mazzetti, un’esponente del free cinema che aveva la rubrica “Il lato oscuro” sul giornale «Rinascita». Da Lorenza conobbi lo scrittore francese Guillaume Chpaltine, l’autore del romanzo sperimentale La rinuncia. L’incontro con Chpaltine e la lettura del suo libro, uscito per Feltrinelli nel 1963, mi influenzarono molto.

 

L.S.: È prevalentemente scrittore di libri di prosa. Ha mai scritto delle poesie?

G.D.M.: Non faccio molta differenza tra prosa e poesia.

 

capelloni e ninfetteL.S.: Esponente centrale della stagione beat italiana, come definirebbe quel momento da un punto di vista storico-sociale e poi letterario?

G.D.M.: Fu un momento d’intenso godimento, una fiammata nata, a corto circuito e con forti cariche simboliche, dall’incontro tra le tematiche esistenziali dei beat e quelle politiche del movimento operaio e studentesco.

 

L.S.: Nel 1967 è stato caporedattore della rivista «Mondo Beat». Può parlarci di quell’esperienza e condividere con i lettori quelli che considera essere stati i motivi principali della fine di quel giornalino della frangia contestatrice?

G.D.M: Era l’epoca di un movimento di accomunamento, spontaneo, non organizzato, tra giovani. Ma anche della Guerra fredda e non c’era spazio per una contestazione pacifica. Stretti com’eravamo tra la cultura della Democrazia cristiana degasperiana e del P.C.I. in gran parte ancora stalinista, la repressione dei movimenti giovanili, oltre che operai, era piuttosto violenta. Non restava che organizzarsi in una lotta muro contro muro, i muri di gomma della società italiana. Cosa che preferii evitare, andandomene in Marocco a fare il surf sui cavalloni dell’Oceano Atlantico, a scopare e a fumare il kif, invece di cedere, come tanti della mia età, al fascino delle armi automatiche.

 

L.S.: Ha conosciuto Fernanda Pivano e ha collaborato strettamente con lei. Potrebbe fornirci un suo ricordo, o un aneddoto, della grande letterata che più di ogni altra ci ha consentito di conoscere la letteratura americana contemporanea?

G.D.M.: Sono ricordi piuttosto personali, ricordo che era molto dispiaciuta per la fine dell’amore con Ettorino, suo marito, e me ne parlava spesso, chiedendomi anche di aiutarla a trovar casa, non voleva più abitare in via Manzoni. Quello che mi colpiva era che nel parlare della sua concorrente, la rivale che le aveva portato via il marito, non diceva “puttana” ma “quella sgualdrina”. Mi diceva “sei nato apposta per scrivere”, aggiungendo: “fatti furbo”, e un giorno mi presentò all’editore Alfredo Guida, che mi pubblicò alcuni racconti, “La casa dell’amico” e “Fratello africano”, usciti nella collana “Clessidra”, insieme a “Ipotesi per un soggetto” di Mario Spinella.

 

odoriL.S.: Quali, tra poeti e scrittori della scena lombarda e della Capitale, vicini o impegnati nella Contestazione e affini ai beatnik, ha conosciuto? Con qualcuno di loro è ancora in contatto?

G.D.M.:  Nel 1967, i poeti Ermanno Krumm e Franco Loi; entrambi frequentavano “la Cava”, la redazione di «Mondo beat» in via Vicenza. In un bar di via Brera, il bar Jamaica, conobbi anche Umberto Eco, ci facemmo una partita a flipper e m’invitò a casa sua, perché voleva informarsi meglio sulla contestazione dei ragazzi di “Mondo Beat” e di “Onda verde”, ai quali peraltro aveva suggerito lo slogan “la mamma fa venire il cancro” da usare durante gli happening in piazza Duomo. Era molto scettico sugli esiti della contestazione giovanile, del “proletariato biologico”, come la definiva, diceva che sarebbe stata riassorbita dal “Sistema”. Era appena tornato da un viaggio in Irlanda, era solo in casa, la moglie era in vacanza, e quando gli offrii uno spinello disse: “Nà, nà, grazie… sapessi quanti sforzi debbo fare per mantenermi lucido”.  E incominciò a parlare del gaelico, quasi una lezione magistrale su questa lingua irlandese, tra un bicchiere di ‎scotch whisky e l’altro, fino all’alba, che ci trovò insieme alquanto ubriachi sotto il tavolo. In seguito, in Marocco, ho conosciuto Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, che venivano a casa dei miei amici Toni Maraini e il pittore Mohamed Melehi, a Casablanca, in Rue Rouget de l’Isle. A Essaouira, nel 1969, ho incontrato Julian Beck e Georges Lapassade, in qualche modo affini ai beat. E a Tangeri Paul Bowles, del quale poi, nel 1975, ho curato i racconti M’ashish & Cento Cammelli nel cortile, per Arcana di Roma, la casa editrice di Raimondo Biffi. Al ritorno dal Marocco, nel 1975, ho conosciuto e frequentato, a Milano, Elvio Fachinelli, che m’invitò a partecipare alla rivista e casa editrice “L’erba voglio”, che pubblicò, tra l’altro, Boccalone di Enrico Palandri. Quando poi uscì per Feltrinelli Altri libertini di Tondelli, a cura di Aldo Tagliaferri, ci dicemmo: “un boccalone tira l’altro”. Tra gli scrittori della scena lombarda e della Capitale ho anche conosciuto Luigi Compagnone, autore, fra il molto altro, de La vita nova di Pinocchio, Michele Prisco, mio conterraneo, di Torre Annunziata, Enrico Filippini, Vincenzo Consolo, Giuseppe Pontiggia, Giuliano Gramigna, Vincenzo Cerami, Giorgio Bocca, Nanni Balestrini, Mario Spinella… ma credo che siano tutti morti.

 

L.S.: Perché, a differenza di quanto avvenuto nella letteratura americana, l’esperienza del beat non ha avuto grande eco, attenzione e considerazione dalla critica e dalla storiografia ufficiale?

G.D.M.: Me lo chiedo anch’io. Forse perché è stata sommersa dal successivo attivismo politico, per riemergere soltanto con il movimento studentesco e giovanile degli “Indiani metropolitani” sviluppatosi in Italia nel Settantasette. I beat italiani, fatta eccezione per il poeta Gianni Milano e per Andrea D’Anna, che nel 1967, pubblicò Il Paradiso delle Urì per Feltrinelli, non hanno prodotto grandi romanzi, preferivano inventare dei costumi invece che dei romanzi. Eppure la loro vita era molto romanzesca.

 

L.S.: Che cosa ne pensa della resistenza pacifica della “comune di Terrasini”, nel Palermitano, ideata da Carlo Silvestro alla fine degli anni Sessanta?

G.D.M.: Ne ho sentito parlare, alla fine degli anni Sessanta ero in Marocco, ci sono rimasto, come residente, dal 1967 al 1975.

 

L.S.: Quali opere letterarie e non, tanto italiane che straniere, hanno influito profondamente sulla Sua crescita e, conseguentemente, sulla Sua produzione letteraria?

G.D.M.: Les illuminations e Une saison en enfer di Rimbaud, opere lette a sedici anni, per me furono una vera “scossa”. Ma credo che sulla mia produzione letteraria, tra il romanzo e il saggio, abbia influito anche la lettura di Laurence Sterne, l’autore di La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo.

 

L.S.: Ha conosciuto Tiziano Terzani e Danilo Dolci? Quali parole si sente di usare per riferirsi alla loro opera?

G.D. M.: Non li ho conosciuti. Mai letto Terzani. Danilo Dolci, sì: Palpitare di nessi.

 

L.S.: Nel 2008 hai dedicato, a partire dal titolo del libro, una pubblicazione al beat sottolineando la presenza importante delle “ninfette”. Il libro al quale mi riferisco è “Capelloni e ninfette”. Può dirci cosa intende con questo termine? Come è nato questo libro e a chi si vuole riferire?

G.D.M.: A partire dal 1959 c’erano state diverse edizioni italiane della Lolita di Vladimir Nabokov, una ninfetta con nome e cognome, e la stampa benpensante chiamava “ninfette” le ragazze beat, esemplari di seduzione minorile, sospettate, in maniera variamente consapevole, di essere “infette” (n/infette). Allora si era minorenni fino al compimento del ventunesimo anno di età. I capelli lunghi suscitavano allarme morale, perché suggerivano indistinzione tra i sessi. Ai beat non piaceva il termine “capelloni”. Il libro è nato dal desiderio di ricordare quel periodo di tentativi d’amore e di rivolta, che è imbarazzante ricordare.

 

L.S.: Quali tra i poeti nazionali della Seconda metà del Novecento e della nostra contemporaneità la attraggono e la convincono di più? Perché?

G.D.M.: Ermanno Krumm e Cesare Viviani, perché fanno attenzione alle parole, oltre che alle emozioni e ai sentimenti.

 

L.S.: Quale è lo scopo della letteratura? E il suo stato di salute in questo momento?

G.D.M.: “Dapprima si grida al Teolefono” – scrive Hélène Cixous in Ayaï! Le Cri de la littérature; si grida a lungo, si chiama Dio al Telefono, si indirizza il proprio gridare al Senza Indirizzo:

ALLO

ahi

ahi

ahi

Ayaï

Ai

Poi si scrive: si traducono nell’ultrasilenzio della scrittura gli acuti e brevi gridi della realtà. La letteratura è per urlare a lungo, strillare fino alla musica. Il diritto alla letteratura ovvero il diritto alle grida che la realtà e la comunità ci proibiscono. In famiglia siamo pieni di grida soffocate, siamo dei lupi imbavagliati”. Rileggendo Hélène Cixous, viene in mente che scrivere non è cinguettare e forse nemmeno chiocciare come una gallina. E che la letteratura, non quella d’intrattenimento che mostra il mondo come non è affatto, ma la letteratura decisiva, che è sempre stata magica e nera fin dall’Antichità, sia questa insistenza, questa ripresa attraverso le lingue e i secoli, del battito di un cuore che la morte, la nostra e di quelli che amiamo, non spegne. Noi moriremo e la nostra meraviglia di talpe che scavano e gridano sopravviverà, ed è questa musica, questo ritmo di distruzione e origine, così vicino al segreto delle energie mutanti e della nostra paura, della nostra sofferenza, che ci fa sentire qualcosa di più alto e forte della morte: il polso della vita che si sente vivere passando da un’opera all’altra. La letteratura è il dono che i morti fanno ai vivi. Come dire: “Signore, sollevaci dalla polvere!”. Lo scopo della letteratura decisiva, non quella d’intrattenimento che presenta il mondo come non è affatto, è sempre stato nero, fin dall’Antichità. Metterci in presenza con lo “sconosciuto” là fuori e dentro ciascuno di noi. Nel tentativo, in un angolo che mai si chiude, di tracciare non dico un senso, ma un significato nel caos del mondo.

 

L.S.: Il mondo orientale, tra riti, sapienza misterica, filosofia meditativa e religiosità intima e personale ha sempre affascinato – in alcuni casi al punto di decidere di cambiare nome e abbracciarne uno indiano – i giovani impegnati e ribelli della Contestazione. Quanto, per lei, è importante quel mondo? In quali manifestazioni e comportamenti sente di avvicinarcisi?

G.D.M.: L’interesse per le tematiche orientali, in Italia si era sporadicamente manifestato durante i fermenti presessantotteschi e poi con la cosiddetta “svolta ad Oriente” della nuova sinistra ai tempi del crollo delle illusioni rivoluzionarie, il cosiddetto “riflusso”, come si disse con metafora mestruale. Per me è importante, specialmente l’incontro con il buddhismo, perché può costituire un ampliamento di ricerca, dalla sfera unicamente sociale a quella paradossalmente chiamata “interiore”.

 

L.S.: Nel 1979 partecipò al Festival di Castelporziano? Se sì, quale è il suo ricordo?

G.D.M:  No, non ho partecipato, ma ho degli amici che me l’hanno raccontato.

 

hotel oasis mondadoriL.S.: L’esperienza del viaggio, del continuo vagare, risulta centrale – quale motivo di crescita e scoperta, ma anche di fuga e di ribellione – all’interno della stagione della quale stiamo parlando. Quanto ha significato per lei il viaggio? Quali sono stati i viaggi più incisivi e determinanti nella sua vita? Per quali ragioni?

G.D.M.: Per me il viaggio non è una fuga, ma un tentativo di sfuggire a quello che potrei diventare se restassi in un’attesa inerte verso l’esterno. I viaggi verso l’interno, tramite lo yoga, non denotano necessariamente un atteggiamento mentale “narcisistico”. Se sembrano tale è perché, a differenza dell’antropologia orientale, non crediamo al potere autoliberatorio della mente introversa, in connessione con il Cosmo, più che con la televisione e l’infosfera digitale. In altre parole, perché crediamo, a torto, che la mente sia niente altro che un epifenomeno del cervello e quindi sviluppiamo una piccola idea della relazione con noi stessi, con l’altro e con l’Universo.

 

cover2+titoloL.S.: Nella sua nota biografica si legge che ha appena completato un nuovo lavoro letterario – che speriamo di poter leggere presto – dal titolo “Addio a Mogador. L’ultimo beat stagionato vuota il sacco” (cover di Fabio Fontanella – a sx). Le va di anticiparci qualcosa?

G.D.M.: Confinato in casa, in piena pandemia da Coronavirus, un vecchio (ovvero, per dirla con il governatore Toti, un “anziano improduttivo”) si ritrova a raccontare quello che a cinema si chiamerebbe un flash back. Il ricordo di un luogo, Mogador, “roccia Atlantica del Marocco”, luogo deputato degli incontri, dei giorni, delle notti del protagonista, bianco ed europeo, e dei suoi amici Monkrim e Äissa ai tempi del sorgere della prima controcultura beat ed hippie. Nel tentativo di radicarsi in “una società in cui i costumi sono un po’ diversi”, attraverso lo studio del linguaggio erotico e del comportamento sessuale nella civilizzazione arabo-musulmana, non saremo più a Mogador, bensì nel deserto, al seguito dei riti e i detriti dei culti di trance e di possessione della confraternita dei Regraga, che in primavera porta in giro “come uno sciame di api fecondatrici, la baraka, questa energia che risiede nell’etere, ai limiti della percezione”. Mettendosi continuamente in discussione nella lingua e nella struttura, l’autore s’interroga sul linguaggio come espressione del desiderio del corpo amoroso e dell’incontro con lo “sconosciuto” là fuori e soprattutto lo “straniero” che è dentro di noi. L’amore, la povertà, la violenza, ma soprattutto il tempo e la morte sono i temi dominanti di un libro intenso e malinconico, che la mia prosa, spero nitida, invita a percorrere in un itinerario, forse indimenticabile, che è insieme di un’antica civiltà in dissoluzione, e anche di una forma di vita “ai limiti dell’esperienza”. Puro zolfo.

 

L.S.: Crede che nell’attualità della nostra letteratura esistano esperienze e forme efficaci di denuncia etico-civile che, per la loro forza ed esigenza, possono dirsi paragonabili alle motivazioni che determinarono il fermento sociale, creativo e culturale degli anni Sessanta?

G.D.M.: I ragazzi e le ragazze dei Centri sociali.

 

.S.: Gianni De Martino oggi è un uomo con quali rimpianti e quali speranze?

G.D.M.: Nessun rimpianto e neanche speranze. Per quanto è possibile non averne davvero, perché le speranze restano tenaci, come le erbacce che crescono ai bordi dei cimiteri. D’altra parte, è anche vero che se le chiamiamo “erbacce” è forse perché non ne conosciamo ancora le virtù. Insomma, non si sa: si va.

 

L.S.: La domanda alla quale ha sempre voluto rispondere e che nessuno le ha mai posto. (Indicare anche la sua naturale e consecutiva risposta)

G.D.M.: Come si sarà capito, se non mi si fanno vere domande non ho vere risposte da dare.

 

Grazie per la sua disponibilità di essere intervistato.

[Domande dell’intervista inviate a mezzo mail il 04/11/2020 e risposte nel medesimo giorno]

 

Il presente testo non può essere diffuso, in formato integrale o di stralcio, senza il permesso scritto da parte dell’autore. La citazione è permessa indicato la naturale fonte dell’intervista che è la seguente: LORENZO SPURIO, “Gianni De Martino, intellettuale beat autore di Capelloni e ninfette a tu per tu. Intervista a cura di Lorenzo Spurio”, «Leggere Poesia», 25/11/2020.